Nino Migliori
TRASFIGURAZIONI
Mostra fotografica
dal 23 Novembre al 1 Dicembre 2013
S. M. Gualtieri, Pavia
vernissage Sabato 23 Novembre, ore 18
NEL SEGNO DELLA VERTIGINE
E’ abbastanza facile spiegarsi il perché della vertigine che si prova mettendosi davanti all’ opera di Nino Migliori. E’ comunque il segmento di un tragitto lungo più di sessant’anni di storia delle immagini, di cui ogni singolo oggetto, ogni invenzione reca le tracce. Se poi consideriamo che proprio il tema del tempo che lascia segni e tracce, dell’accumularsi di segni sulla materia che si fa immagine della memoria o (per citare il titolo di una delle sue infinite ricerche, Antimemoria) è il tema che con maggior continuità accompagna il suo operare, quella vertigine si precisa: è la vertigine dell’ abisso delle trascrizioni, del mutare di senso, dell’ infinita semiosi, direbbe Umberto Eco. E’ la vertigine suggerita dalle configurazioni dette, in araldica, in abisso: il cavaliere che porta uno scudo su cui è raffigurato un cavaliere che porta lo scudo su cui….. Poi, a un certo punto, affondando immagine dentro immagine, sempre più piccole, ci si ferma; c’è un limite imposto dalla base materiale della figurazione: lo spessore del pennello, della matita, la dimensione del grano di sale d’ argento, il pixel, il bit. Ma siamo trascinati oltre, dal poter immaginare una trascrizione infinita di quell’ immagine. E pensare che gli inizi di Nino Migliori appaiono nel segno della realtà definitiva, rivelata istantaneamente: l’ aria del neorealismo che indicava spostamenti dell’ attenzione su paesaggi e paesaggi umani tutti da rivelare, sorretto da documenti americani (quelli arrivati da Life, o mostrati da Vittorini in Americana, poi Strand a Luzzara con Zavattini…) e ironia intrisa di surrealismo di Cartier-Bresson. Migliori organizza per serie, propone immagini quasi paradigmatiche di quegli strumenti: l’ istante del tuffatore, dei preti volanti, ma anche il tempo dislocato delle sequenze di conversazioni (e vengono in mente quelle “siciliane”, di Vittorini/Crocenzi) e intanto procede su altri strumenti, fondamentali del linguaggio della fotografia, che sembrano dipinti informali ma non lo sono proprio: le Ossidazioni, poi i Pirogrammi, poi tanti altri procedimenti/immagine, sono proprio fotografie. In Italia non sono tanti, in quegli anni Cinquanta-Sessanta, a pensare una storia delle immagini che non divide realismo e astrazione: tra gli storici e teorici dell’ Arte per esempio Argan, Maltese, poi –e proprio riferendosi anche a Migliori- Quintavalle; Migliori con pochissimi altri fotografi (ma tanto differenti, come: Veronesi, Grignani, Monti, Giacomelli) propone una visione integrata facendo. A tratti, la sua opera sembra fin troppo facile da ricomporre per citazioni, per riferimenti ad altro; il riferimento alle ricerche pittoriche (ma potremmo anche dire, dentro alla fotografia “realista”, ai soliti Strand e Cartier-Bresson) troppo spesso viene preso in esame solo per stabilire antecedenze e derivazioni, perdendo così di vista il senso di un procedere che sperimenta continuamente, in cui l’ opera è più nel procedimento visibile, sempre attento al mutare del contesto (non dimentichiamo: sessant’ anni densi di mutamenti di quanto gli accade intorno) che non nel singolo esito, per quanto di altissima qualità. A Migliori, in altri termini, sembra interessare più il passaggio da un linguaggio all’ altro, la scoperta di una potenzialità inattesa nell’ applicazione di un procedimento/pensiero che non la –creazione- di un prodotto nuovo. La denominazione delle decine di serie elaborate negli anni andrebbe intesa, più che come rivendicazione di un copyright, come delimitazione del senso di una verifica continua di possibilità del fare immagini, del fare pensare per immagini.
Ma siamo qui, ora, davanti a queste Trasfigurazioni. Tra il 1998 e il 2003 il nostro autore utilizza ampiamente, già da qualche tempo, materiali a sviluppo istantaneo, di preferenza non quello di uso professionale ma quello di uso corrente e quotidiano. Immagine senza negativo, immagine unica come gli antichi dagherrotipi (e come questi di dimensione fissa: quella scena diviene, senza mediazioni, quell’ oggetto), e immagine “facile”: veloce e acritica quasi come una fotocopia. In quegli anni il privilegio di istantaneità delle Polaroid è eroso dalla diffusione delle camere digitali. Resta il privilegio feticistico, dell’ oggetto-immagine, di consumo, con conclamata cittadinanza nell’ ambito della ricerca artistica soprattutto di area Pop: Warhol, Hockney, e da noi Schifano… Migliori ne aveva fatto, come sua abitudine, luogo di una sperimentazione ulteriore, anche con declinazioni orientate alla didattica delle immagini. Intervenendo con pressioni, segnature, frottages, nel breve tempo tra la fuoriuscita dalla camera e la stabilizzazione dell’ immagine, era possibile modificare radicalmente le stesure di colore, sottolineare, cancellare, alterare: rendere –altro- dalla replica della realtà. Procedendo in questo modo diviene esplicita la soggettività del produrre immagini fotografiche: si possono rivoltare in caricatura ritratti al volo, sottolineare con colori in parte imprevedibili tratti espressivi di una scena, si può essere Seurat in uno scatto e dopo pochi minuti essere Jacovitti. La velocità a cui costringe il procedimento, i pochi minuti in cui l’immagine appare, e possiamo ricostruirla o distruggerla, costringono a muoversi con qualche idea in testa, con un progetto, oppure ad agire in una sorta di sonnambulismo creativo, da scrittura automatica surrealista di cui non conosciamo bene l’ esito ma, sappiamo, sarà traccia di qualcosa di molto profondo. Ad un certo punto forse il procedimento è sembrato, a Migliori, esaurirsi in un ambito troppo meccanico, rischiava (anche sotto la spinta di un epigonismo un po’ dilagante) di confondersi con la maniera. Il gioco allora viene spinto in territori ulteriori. Certo, il gioco, perché la separazione dell’ immagine nel senso dello spessore credo avvenga anche a causa del demone ludico (che non ha mai abbandonato il suo posto dietro la spalla di Nino Migliori) che incita a smontare il giocattolo, a vedere cosa c’è dentro, come è fatto, come funziona. Forse è mimata anche la ricerca ingenua dei bambini molto piccoli, di qualche cane e di qualche gatto, che quando vedono uno specchio cercano, dietro, se c’è un altro sé stesso. Il fatto è che dietro l’ immagine, tra l’ immagine e la sua materia, il Nostro qualcosa la trova davvero.
Si prende la Polaroid con l’immagine, su cui l’autore è intervenuto con segni ulteriori; si pratica un’ incisione lungo i bordi dell’ immagine e se ne stacca la superficie, quella con l’ immagine rivolta verso il “guardatore”, dalla base del supporto chimico. Facendo questo, spesso l’immagine viene in parte distrutta; quello che resta, la base degli scarti chimici normalmente invisibile, è ciò che Migliori chiama la –sinopia-: proprio come il tracciato sulla calce degli affreschi, tracciato con un punteruolo (come è stato magari fatto sulla Polaroid) o a spolvero, un tracciato che è come l’ intelaiatura dell’ opera e che può essere sede di rifacimenti, sovrapposizioni, opere indefinitamente diverse una sull’ altra. E da questa struttura d’ immagine, esile e quasi impercettibile, dai colori spenti come di combustione esaurita del colore (nel frattempo l’ immagine unica si è sdoppiata, la fotocopia trasparente della realtà è divenuta coppia di figure della distruzione del reale) inizia una ricostruzione per via digitale delle cromìe, delle stesure. Sarà un’ immagine immateriale (la sequenza numerica delle informazioni digitali al posto della superficie chimica e ottica) e infinitamente replicabile (al posto della Polaroid unica) e ricordiamo che il periodo storico in cui questo avviene è quello della crescente digitalizzazione dell’ immagine, gli ultimi anni in cui la chimica fotografica è prevalente garanzia dell’ analogia tra realtà e figura del mondo, e sono anni in cui la saturazione del paesaggio iconico, della quantità delle immagini e raffigurazioni disponibili, prende qualità e quantità inedite. Due mosse, quindi: la distruzione dell’ immagine analogica realistica per eccellenza e la ricostruzione che è, però, costruzione ex novo di una realtà seconda, filtrata da una memoria intenzionale (l’ oggetto reale è ormai distante nel tempo e nello spazio) delle immagini, e se è all’ opera una memoria involontaria nel senso proustiano (di evocazione istantanea) questa è messa in atto rispetto alla cultura d’ immagine, quella dell’ autore in combutta momentanea con quella dello spettatore. Vediamo allora dalla traccia pallida emergere in toni vividamente Pop (da grafica psichedelica anni Sessanta) un macchinario/città, o da un fantasma di tracce nere solo accennate riemerge (ma sommersa di colori impossibili) una Cinquecento. Il passaggio dalla sinopia all’ immagine a volte ci consente un viaggio fulminante nella cultura attraversata da Migliori: il resto di superfici segnate in colori spenti a suggerire una figura (come tra Dubuffet e il Migliori dei Pirogrammi anni Cinquanta) rivive in tinte squillanti di segni violenti, e ricorda le reinterpretazioni dei suoi Muri condotte negli anni Settanta, a colori già reinventati per via chimica. Oppure abbiamo come cenni a fasi di storia delle immagini: un Nettuno, appena tratteggiato a segni pesanti come una xilografia espressionista risorge come ripensato da un allievo di Boecklin, tra ori simbolisti e colori acidi fauve; il segno ripassato forse di un rosone medievale si rivela come un mandala fiammeggiante, e al centro forse un volto sintetico. E si prosegue con ricostruzioni prima di tutto della memoria delle immagini, in un procedere che evoca il lavoro onirico: visione istantanea distrutta dall’ oblio che poi riemerge condensando, simbolizzando. Il Duomo di Milano, icona infinitamente moltiplicata che ritorna come una stazione del lavoro –sul motivo- della Cattedrale di Chartres di Monet, poi una evocazione della Grande Jatte di Seurat a colori apocalittici sul Mincio. La ricostruzione da quei fantasmi di immagini procede per risaturazione dei colori che hanno abbandonato la sinopia, migrati sull’ immagine “positiva” magari distrutta o magari migrata verso altri tipi di opera; in questo procedimento (e quello della –saturazione- è un altro dei temi della vertigine delle immagini, quanto mai attuale) tende a prevalere una tensione verso l’ immagine fortemente connotata in senso simbolico: l’ ippogrifo o il segno pubblicitario. Spesso è davvero difficile immaginare l’ origine fattuale di questi lemuri a volte divertiti e di questi paesaggi in apparenza tutti risolti nel segno del gesto, della scrittura, dell’ automatismo che riporta un angolo lancinante di memoria come in un Soutine.
La sequenza sembra riportare a galla figure accostate casualmente ma con il sospetto di un legame enigmatico e giocoso (come nei Rebus, come negli impianti letterari di Roussel) che accosta statuaria romana vista da un Alinari allucinato e un registratore di cassa, la credenza di Tonino Guerra e una costruzione neogotica venezianeggiante a Rocchetta Mattei, e la vibrazione di colore su un’ onda, forse su una tenda, un putto scolpito che pare riprendere vita in un sogno e la vecchia confezione pubblicitaria, di un lucido da scarpe che avevamo già incontrato in un’ altra fotografia di Migliori, che ci aveva ricordato un quadro al Moma di New York, che abbiamo davanti in questa vertigine di sogni ricorrenti, di figure della Trasfigurazione.
Paolo Barbaro
Maggio 2011
Scoprire, trovare, fotografare
Conferenza di Enrico Prada
29 Novembre 2013 - S. M. Gualtieri - Pavia
Foto di Franco Castellari